giovedì 8 marzo 2012



Intervista a Maria Carla Micono 
(ottobre 2011)
-      riflessioni sulla scuola, l’immigrazione, il volontariato, la disabilità e tanto altro  -
a cura di Chiara Moretti



D: sono con Carla Micono, una vitalissima 65enne di Ciriè. Per 15 anni ha fatto l’insegnante nelle scuole materne ed elementari, poi è stata Dirigente Scolastico per altri 24 anni.Nel corso della vita ha svolto un continuo percorso di formazione ed aggiornamento in tematiche molto diverse tra di loro: scuola, disabilità, donne e immigrati. Attualmente è…tante cose: coordinatrice del personale di un asilo nido, volontaria presso l’associazione “Il portone del Canavese” come insegnante di italiano per gli immigrati, membro attivo di “Amnesty International”, prima membro e ora presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione Troglia, ed infine consulente dell’asilo nido e della scuola per l’infanzia di Mathi. Ora, Carla, prima di incominciare a parlare della tua grossa esperienza lavorativa, ti chiedo quali sono i tuoi piccoli piaceri di vita, le tue canzoni preferite e perché, i tuoi cantanti preferiti…insomma, cominciamo a conoscerti nella sfera più intima...

R: Diciamo che certe cose si coltivano da sempre…adesso forse c’è un po’ di tempo in più, perché è vero che io sono tante cose, ma è anche vero che uno se le sceglie! Quando si è in pensione non c’è più la necessità contingente di essere sul lavoro con gli orari fissi. Mi piace ascoltare musica, il mio cantante preferito è Ligabue…sottolineo che i suoi sono gli unici concerti che ho visto in vita mia: quando viene a Torino ci devo andare! È una musica che mi emoziona rispetto ad altre che considero solo rumore. Poi ci sono i classici: dai Beatles alle canzoni della grande Mina... Mi piace leggere, in particolare libri gialli, thriller, fantapolitica: amo tutto ciò che scrive Ken Follett; ho riscoperto ultimamente Camilleri, cui prima avevo un po’ di difficoltà ad avvicinarmi per il dialetto siciliano, ma che invece una volta acquisito trovo che renda molto realisticamente la società che vuole descrivere. Mi piace il suo modo di pensare e di vedere i personaggi, di tratteggiarli dal punto di vista letterario.

D: peccato che si riduca soltanto alla società siciliana, visto che è tanto bravo…

R: Ne sta uscendo fuori, visto che ci sono degli ottimi romanzi scritti in italiano, oltre che dei saggi storici, ad esempio quelli su Caravaggio, che sono molto interessanti. Per quanto riguarda poi le altre arti, mi piacciono il teatro e il cinema, anche se lo seguo soprattutto attraverso sky, perché sono un po’ pantofolaia!

D: Possiamo quindi passare alla tua enorme vita lavorativa, che nonostante la pensione continua ad essere molto attiva. Abbiamo fatto prima un lungo elenco di attività di cui ti occupi: di alcune di queste si nota subito la connessione con la tua esperienza lavorativa, mentre invece mi sfuggono un po’ di più le motivazioni che ti hanno portato ad “Amnesty International”, al “Portone del Canavese” e alla fondazione Troglia, ovvero volontariato (anche se rispetto al Troglia non sono certa che si tratti di  volontariato). Vuoi raccontarci che cosa sono questi enti, di cosa si occupano e cosa fai tu al loro interno?
R: Si, è volontariato anche al Troglia. Intanto c’è comunque un filo conduttore che lega tutte queste cose: in Amnesty International  ero già volontaria mentre ero ancora in servizio, perché insieme ad altri insegnanti era forte la convinzione che parlare di diritti umani ai bambini si potesse anche quando erano molto piccoli; quindi con Mario Actis, che è presidente della sezione di Amnesty a livello locale, avevamo cominciato a dare della documentazione e del materiale alle scuole e agli insegnanti proprio perché la trasversalità dei diritti umani va oltre quello che è la singola disciplina di studio. Su questo tema devo dire che è stato un grande successo perché in questi 20 anni in cui il percorso è stato portato avanti abbiamo raccolto riscontri molto positivi da parte di questi prima bambini e poi ragazzi…
Adesso la differenza sta nel fatto che, avendo più tempo libero, do una mano un po’ più grossa per portare avanti il progetto lavoro…Quest’anno ad esempio il percorso che si fa negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia è sul tema dell’infanzia negata e, con i più piccoli, il diritto del gioco. È importante parlarne perché attraverso i bambini qualcosa arriva anche alle famiglie, e questo è fondamentale.

D:  Questi percorsi aiutano a creare delle persone migliori nel futuro?

R: Noi ci speriamo. Il discorso de “Il Portone del Canavese” è legato all’insegnamento della lingua italiana ma, prima di ciò, a un discorso di conoscenza: io sono convinta che se vogliamo che gli altri rispettino il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, a nostra volta noi dobbiamo imparare a conoscere quelle degli altri. Solo attraverso quel filo passa il rispetto reciproco del modo di pensare, della mentalità, degli usi , dei costumi; perché ogni civiltà, ogni comunità, ogni etnia ha il proprio modo di vedere le cose che a volte noi che siamo qui sembrano strani e incredibili, ma per chi invece l’ha sempre vissuta è una realtà. E vale la stessa cosa di noi visti dai loro occhi. La cosa più importante è dirsele, queste cose. È chiaro che, poi, si deve chiedere loro rispetto: viviamo qui in Italia e ci deve essere il rispetto dei nostri diritti e del nostro modo di vivere, ma è importante che ciò non passi attraverso un’imposizione. A “Il Portone del Canavese” non chiediamo alle persone se sono clandestine o no: sono persone che arrivano, anche perché se vengono per imparare l’italiano dopo aver lavorato, probabilmente in nero, per una giornata intera, magari scaricando ai mercati generali, forse è perché hanno voglia di inserirsi nella nostra società. E questo ci conforta.
La storia del Portone dura ormai anni …d’altra parte non c’è un’altra realtà a Ciriè, nonostante la comunità straniera sia numerosa, che affronti in questo modo tali tematiche. Con i partecipanti al corso abbiamo anche fatto degli ulteriori corsi di conoscenza della Costituzione italiana, di quelle che sono le varie realtà degli uffici in cui devono recarsi, trovando collaborazione in molte persone: dalla dott.ssa Patanè della medicina legale, alla sig.ra Daniela Sandrone del Centro per l’Impiego, al comandante dei vigili…insomma, tutte le persone che hanno collaborato per dare una mano per permettere la conoscenza del nostro Paese. Dallo scorso anno esiste una convenzione con l’università degli stranieri di Perugia, la quale a fine anno certifica con un esame le conoscenze acquisite nei nostri corsi. Quest’anno su 15 persone che hanno sostenuto l’esame, 9 persone hanno superato il test , ed è un test ritenuto valido dalla questura.

C: ricordiamo infatti che quasi due anni è diventato obbligatorio per gli immigrati, nel momento in cui fanno la richiesta di soggiorno, dimostrare di conoscere la lingua italiana e i diritti fondamentali della Costituzione. In quanti giorni alla settimana è presente il corso? Quanti sono i partecipanti e da dove arrivano?

R: lunedì ,martedì e mercoledì presso l’istituto Troglia, dalle 18 alle 20. In genere i partecipanti arrivano a seconda dei loro bisogni di lavoro. C’è gente che arriva, oltre che ovviamente da Ciriè, anche da Ceres, da Germagnano, da San Maurizio…adesso in molti comuni hanno organizzato dei piccoli corsi di lingua italiana. Ad esempio con San Maurizio siamo come associati, perché loro non sono abilitati a far sostenere l’esame, per cui ci siamo accordati che persone che frequentano il loro corso potessero accedere ai nostri esami, e questo è un modo per fare un po’ rete tra di noi…
Per quanto riguarda invece la mia attività di volontaria presso l’istituto Troglia, anche questo percorso ha un legame con la mia storia precedente. Nello statuto di questa fondazione onlus, ovvero senza fini di lucro, è previsto un consiglio di amministrazione di nomina a carico del sindaco. Sono quindi stata indicata dal Comune di Ciriè. Ad oggi siamo in scadenza e attendiamo la nomina dei nuovi membri, e ripeto che siamo tutti completamente volontari: non c’è gettone di presenza. Siamo contenti di essere così, perché in questo modo si può esplicare la nostra libertà e il nostro modo di decidere. Nello statuto della fondazione al primo punto è scritto che fosse il primo luogo a Ciriè dedicato ad attività per i minori e la famiglia, per cui tutte le attività e le iniziative sono, anzi, devono essere improntate a questo aspetto: questo è scritto nel lascito che  nel 1904 la signora Troglia fece di questa struttura. Un tempo il Troglia era dedicato soprattutto a ragazzi che studiavano: era una struttura esclusivamente femminile. Alcune persone che vengono qui adesso ci dicono” io dormivo lì”, perché il Troglia era un convitto che permetteva di andare a scuola…
Poi la struttura successivamente si è trasformata: è subentrata una gestione da parte delle suore; quando non c’era ancora il tempo pieno, esisteva un doposcuola, ovviamente femminile, all’inizio. Con l’arrivo del tempo pieno a scuola hanno poi aperto anche ai maschietti…
Successivamente le suore si sono ritirate, e quindi l’Istituto va avanti come una fondazione con un consiglio di amministrazione autonomo. Negli ultimi anni è stata instaurata una grossa collaborazione con il Consorzio Intercomunale dei Servizi socio-assistenziali: è stato aperto infatti il Centro Per la Famiglia, che è un po’ il fiore all’occhiello dei Servizi, e che in questo momento ci sta dando delle preoccupazioni, non tanto per il suo funzionamento in sé, ma perché mancano i contributi.  Non esiste un adeguato trasferimento di funzioni e risorse per tutto quello che riguarda l’area sociale, magari non si dice ma poi lo si tocca quotidianamente con mano, e se ciò non si sblocca potrebbe anche significare in un futuro non troppo lontano interrompere alcune attività e laboratori che adesso stanno funzionando proprio bene. Ad esempio c’è una ludoteca per i più piccoli che funziona gratuitamente quattro volte alla settimana...in collaborazione con l’ASL è stato avviato un servizio di corsi pre-parto ed allattamento al seno: recandosi qui le mamme prima di partorire si instaurano dei legami, delle amicizie, per cui dopo il parto con i loro piccoli le stesse cominciano a frequentare la ludoteca, e continuano a raccontarsi reciprocamente le loro esperienze, e questo meccanismo è molto interessante; c’è  un luogo neutro dove il tribunale fa incontrare i bambini con i genitori, in presenza di un educatore;  c’è un servizio di consulenza gratuita per chi ha dei problemi familiari, tenuta da parte dell’Associazione Avvocati delle Valli di Lanzo; dall’anno scorso c’è anche la possibilità di una consulenza psicologica, per la durata di una o due sedute, per chi ha difficoltà nella gestione familiare dei figli o nella coppia; infine sono sempre alla presenti i laboratori dedicate alle varie fasce d’età del bambino. Tutto questo ora davanti ha un grosso punto interrogativo…

D: Ovviamente si sta parlando della legge finanziaria approvata dal governo che, tra i vari tagli che prevede, annovera anche che i Consorzi (quindi anche quello socio- assistenziale) vengano sciolti e che le loro funzioni tornino, non si sa ancora in che modo, ai rispettivi Comuni. I consorzi per come sono stati organizzati finora ad ora potranno andare avanti fino allo scadere dei loro Consigli Di Amministrazione; per fortuna nostra, nel caso di Ciriè, si tratterà del 2014.

R: il rischio più grosso è che lo Stato e la Regione trasferiscano delle risorse che hanno già fatto mettere in bilancio, di fatto impegnandole, grazie alle quali il consorzio ha assegnato dei contributi già definiti e indicati, anticipandoli economicamente ed in attesa di riscuoterli dallo Stato o dalla Regione. La conseguenza, esistendo la terziarizzazione dei servizi, è che nello specifico si fanno lavorare delle cooperative, come ad esempio la cooperativa Valdocco che opera nel Centro per la Famiglia, che devono pagare lo stipendio ai propri soci e dipendenti, altrimenti i servizi sarà costretto a fermarsi.
La conseguenza è che rischiano di essere chiusi questi servizi, questi piccoli laboratori per i ragazzini, che per loro rappresentano un modo di aggregarsi, un toglierli dalla strada, dal bar, dar un’alternativa al passare le ore ai parchi giochi, spesso a rompere le altalene e i giochi dei più piccoli. Questi laboratori non sono sprecati.

D: È un fare quella cultura che è più preventiva, perché non si va ad agire su persone che hanno dei grossi o comunque conclamati disagi psichiatrici o psichici che siano; sono interventi i cui obiettivi sono a prima vista meno tangibili, ma in realtà i risultati che alla fine si raggiungono con queste attività sono enormi, perché permetteranno i bambini e ragazzini di oggi di crescere con un diverso modo di essere e di fare.
R: Le ragazzine che imparavano al corso per trucco, i ragazzini che imparavano invece a montare, smontare un filmato…queste occasioni erano dei momenti in cui, con la guida di un adulto, questi ragazzi stavano lì, si dicevano delle cose, scherzavano, giocavano, però erano lì controllati…il fatto è che si arriva ad una certa età coi ragazzini in cui non puoi sempre trattenerli, hanno bisogno di una loro  autonomia ma deve essere un’autonomia in po’ sorvegliata o indirizzata, comunque con un obiettivo. Per loro l’importante è sentirsi liberi e agire autonomamente, ma dev’esserci alle spalle qualcosa…invece così si sta disgregando tutta questa realtà, e questo è un grosso pericolo.

D: La mia preoccupazione è che oltretutto siano a rischio servizi ancora più primari, più necessari, almeno per il sentito comune, di un centro per la famiglia. Io personalmente lo ritengo necessario, e se fosse per me promuoverei di più queste attività preventive che non quelle che vanno a raccogliere i cocci. Ma la situazione mi preoccupa a tutto tondo.

R: Ad esempio parliamo dei disabili, che è un’altra parte della mia esperienza perché quando mi sono diplomata alle magistrali ho poi fatto il corso per ottenere il diploma di specializzazione, perché allora il percorso era quello, che era presso l’istituto di psicologia sociale; io ho scelto il corso biennale, che si chiamava scuola magistrale ortofrenica, la quale dava il titolo per insegnare alle allora scuole speciali. In ogni scuola, al tempo, c’era una sezione dove si raggruppavano i ragazzini e i bambini con handicap: e lì ho insegnato, per cui è una parte diretta della mia vita. Quando poi sono entrata di ruolo, non pensavo più a iscrivermi all’università, come avrei voluto; poi mi sono sposata e ho pensato che invece la cosa mi poteva interessare, per cui mi sono iscritta alla facoltà di pedagogia con indirizzo in psicologia, perché allora non c’era la facoltà vera e propria di psicologia a Torino, e quindi ho finito col fare l’università con due figli!
Anche all’università l’interesse per quelle che erano le problematiche di bambini con disabilità fu sempre dominante nel mio percorso di formazione. Sono insegnante montessoriana, mi piace ribadirlo perché l’impatto con il percorso formativo che ho seguito è stato di aver svolto uno di quei percorsi di formazione che ti danno realmente un metodo di lavoro, che ovviamente uno adatta alle situazioni. Maria Montessori diceva sempre che se un accorgimento serve per un bambino che ha difficoltà, a maggior ragione può servire per un altro. Dunque non si capisce perché si debbano usare delle modalità diverse di approccio con bambini che hanno difficoltà e bambini che sono normali. Questa è sempre stata la mia filosofia.

D:  a questo punto direi che siamo arrivate a scavare nel tuo per niente torbido passato: ho letto con interesse il titolo della tua laurea del 1977, “Aspetti del comportamento del bambino nella scuola elementare in rapporto al sistema valutativo e alla motivazione allo studio”. La domanda che mi è nata è stata: chissà quali erano in quegli anni, cioè a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, le strategie delle insegnanti e della scuola per motivare un bambino allo studio, e di conseguenza, vista la tua lunga esperienza, se queste strategie al giorno d’oggi siano cambiate, siano ancora attuali, e che differenze ci sono.

R: Intanto contestualizziamo quel periodo: sono stati anni di grossi cambiamenti, perché sono gli anni che si ricordano per gli organi collegiali; si era tutti invogliati a pensare che se la scuola doveva essere anche una scuola di democrazia, la partecipazione dei genitori e di altre forze esterne alla scuola poteva essere senz’altro una ventata nuova. Anche se le cose sono in parte degenerate perché non si stava ad applicare questo nuovo metodo, o perché qualcuno ne ha approfittato…comunque c’era in quel periodo tutto un fermento all’interno della classe insegnante, sotto tanti aspetti: uno, per ricollegarci a ciò di cui parlavamo prima rispetto ai disabili, riguarda la legge  del ’77 che ha permesso l’iscrizione di un bambino con disabilità nelle classi normali. Fino ad allora c’erano per i bambini e ragazzini con disabilità o altre difficoltà le scuole speciali o le classi differenziali.
Dopo tutta l’evoluzione e la formazione che si è avuta in quegli anni, la legge 517 del 77 aveva stabilito che fossero inseriti tutti in classi normali, con dei limiti (non più di 20 bambini con alunni con certificazione…). Per cui si è messo in moto tutto un meccanismo grazie al quale quegli insegnanti che fino ad allora avevano pensato: “va bè, tanto quel problema non mi tocca”,  han dovuto far i conti in tutti i gradi scolastici col comprendere che l’inserimento di un bambino disabile aveva una grossa valenza di impatto sia nel sociale, che in generale come risorsa per tutti quanti: il bambino, la sua famiglia, i suoi compagni di classe, le insegnanti stesse. Certo, bisognava rivedere tutto il proprio modo di lavorare.
L’altra grossa novità, che è inerente al titolo della mia tesi che tu citavi, è che io mi occupavo di valutazione; fino ad allora i voti a scuola venivano dati tramite un sistema numerico (come è tornato adesso), per passare invece ai giudizi: in quel momento ci sembrava infatti che comunicare ai genitori attraverso la forma del giudizio era un po’ più comprensibile che non dire “6 +, 7-…”. Purtroppo, dato che il sistema valutativo scolastico è tornato alla scala numerica, devo constatare che andiamo avanti come i gamberi, tre passi avanti e due indietro, e quello che è la storia non ci dice proprio niente. E questo è deludente.  Io non tornerei mai indietro: penso che nella vita ad un certo punto si debba fare una verifica, tenere quello che si è rivelato positivo e cambiare ciò che invece si è dimostrato inadeguato. Dire “10” fa molto effetto sul genitore di un bambino, specialmente se fa prima o seconda elementare, ma cosa vuol dire? Tu devi capire da dove parte quel bambino per capire se ha dato “10”. Io ho sempre pensato che se un bambino a causa di alcune sue difficoltà, o per la sua storia, riusciva a dare come massimo un “6”, e quel “6” lo raggiungeva, in realtà era un “10”. Un altro bambino che invece era stato sia più dotato, sia agevolato nella sua formazione perché aveva avuto molte opportunità, con molta più facilità raggiungeva il “10”. Certo bisognava premiarlo, ma bisognava premiare anche l’altro bambino, che per arrivare a quel “6” ci aveva messo proprio l’anima. Questa situazione un voto numerico non lo può dire nè esprimere. Non bisogna essere sterili e fermi sui voti. Attualmente mi sembra che su questo si stiano facendo dei passi indietro, e infatti non rimpiango la scuola di adesso (io sono andata in pensione nel 2005, anche se nel mondo della scuola sono rimasta attualmente per diversi motivi). Mi spiace dire così, perché sembra che le mie motivazioni siano da addurre all’essere ottusamente legata al passato, ma non è così: parlo con i colleghi che sono tuttora in servizio, e vedo che condividono.

D: in effetti penso che siano pochi quelli che si possano trovare bene nella scuola, sia a livello organizzativo, che a livello di contenuti. A livello organizzativo quello che si sente in giro è una fatica sempre più grande delle famiglie a riuscire a gestire il proprio orario lavorativo, magari anche con l’aiuto dei nonni, con questi bimbi che non stanno più a scuola per fare il pomeriggio e quindi devono andarli a prendere; se vogliono partecipare ai laboratori pomeridiani molti sono a pagamento…insomma, non è un bel momento.

R: Perché stanno snaturando il senso delle cose: si è arrivati al tempo pieno negli anni ’70, proprio perché c’era un’esigenza conclamata da parte dei genitori, entrambi occupati da un lavoro…si pensava che i bimbi stessero meglio a scuola che non davanti a un televisore, e che invece con un’organizzazione diversa della giornata scolastica si potessero offrire loro più opportunità. Adesso la prima cosa che ha mosso le scelte del governo nell’ambito dell’istruzione in questi ultimi anni è stata il risparmio della spesa pubblica, che forse si poteva fare razionalizzando quello che c’era ma non andando a toccare un impianto che già funzionava. Così si è andata disgregando una costruzione che negli anni era pian piano cresciuta…l’impressione è che quelli che, come me, hanno lavorato gli ultimi decenni dello scorso secolo, hanno visto crollare in due o tre anni tutto quanto avevano costruito, come un muro. In questo modo non si capisce dove si voglia andare a parare…sento gli insegnanti e sono demotivati, nel senso che viene meno quella che è la loro funzione piena di insegnante che segue il percorso del bambino prima, e del ragazzo poi. E poi  devono continuamente scrivere, registrare…non che lo debbano fare, ma oggi ogni insegnante deve programmare, verificare tutto…
Anche coi bambini più piccoli gli insegnanti entrano ed escono ad ore: se già nelle medie e nelle superiori a volte è difficile fare un percorso continuativo perché le lezioni sono divise in ore, a 6 anni un bambino non ha la capacità mentale di dire “devo finire in 2 ore perché poi arriva l’insegnante che fa matematica”. Col bimbo di 6 anni si ha bisogno a volte di tutto il mattino perché capisca quello che gli è stato spiegato…e invece non gli si dà il tempo, perché entra un'altra persona, un altro insegnante. Possono sembrare, ai non addetti ai lavori, delle modalità ingiustificate e esageratamente lunghe, ma invece queste attenzioni, questi tempi, sono importantissimi per lo sviluppo del bambino, perché ha bisogno dei suoi tempi; non possiamo dettarli noi.

D: Non c’è più tempo per i tempi dei bambini, che però sono fondamentali per la loro crescita. I bambini non si possono piegare ai tempi dei grandi.

R: non puoi cambiarli. Nonostante tutto, un bambino che ha 6 anni da sempre ha 6 anni, quella è la sua evoluzione. Non è che l’ex ministro Gelmini potesse modificare questa cosa.

D: Ecco, già che hai nominato l’ex ministro Gelmini, cosa pensi dei cambiamenti politici attuati nell’ambito dell’istruzione? Inoltre quello che mi stavo chiedendo è quale sia stato il percorso professionale della Gelmini: non è un insegnante anche lei?

R: Rispetto alle riforme in ambito di istruzione, non c’è strategia. C’è riduzione della spesa, punto. Riguardo alla Gelmini, non mi pare che sia insegnante, ma che abbia una laurea in giurisprudenza. Ma il suo titolo di studio può essere ancora secondario: quello che è importante è ascoltare. Quando penso a un ministro mi faccio l’idea che siano un po’ come il sindaco di un paese: non può sapere tutto e arrivare a tutto, ma per questo motivo ha dei collaboratori, una giunta, degli assessori, dei consiglieri. La stessa cosa deve, o dovrebbe, avvenire per un ministro. Allora, per arrivare alla cosa più banale del tunnel dei neutrini, su cui goliardicamente uno ci ride anche sopra…ma voglio dire, prima di leggere un comunicato scritto da qualcun’altro, non ti viene in mente che non hai mai sentito parlare di un tunnel da Ginevra al Gran Sasso? Anche se qualcuno, un collaboratore, nella fretta o nel copia incolla salta una frase e cambia il significato, prima di leggere un comunicato ufficiale non lo leggi? Eri un ministro! Questo vuol dire che hai svolto proprio pedestremente le tue mansioni, e allora in quel caso nella tua testa c’è solo un copia-incolla. In quest’ottica anche rispetto alla riforma non c’è una strategia: dall’alto le han detto “dobbiamo risparmiare”, e lei si è mossa di conseguenza, modalità copia-incolla. Ma forse sarebbe valsa la pena vedere cosa si poteva risparmiare, e dove invece era necessario lasciare. E invece agendo così è successo il finimondo.

D: Ad un convegno a cui ho partecipato sul tema della disabilità erano presenti sia Duccio Demetrio che Andrea Canevaro, ed entrambi erano usciti, forse in tempi diversi, dall’Osservatorio dell’Istruzione, in qualche modo erano consulenti dell’ex ministro Gelmini; quando il pubblico, sogghignando, ha chiesto loro il motivo di tale uscita, la loro risposta è stata molto cinica, perché uno dei due ha risposto che non solo la Gelmini era ignorante in materia, e quello ci può ancora stare perchè questo è il motivo per cui ci si avvale di consulenti, tecnici e via dicendo, ma il problema è che era anche arrogante. E ignoranza e arroganza sono un cocktail micidiale. Adesso però lasciamo stare le cose dei grandi e andiamo a vedere i bambini: non mi hai detto che differenze hai notato nelle classi, dagli anni ’70 / ’80 quando hai iniziato a lavorare, fino agli ultimi tempi.

R: I bambini sono tipici con la loro età. 6 anni sono 6 anni, 10 anni sono 10. È chiaro che cambia il contesto sociale, cambia il contesto mentale della gente che sta intorno, cambiano le opportunità. Spesso si sente dire che sono più intelligenti i bambini di adesso che quelli di un tempo. Io dico che non è così: i bambini degli anni ’60, ’70 sapevano delle cose, quelli di oggi ne sanno altre. Per farti un esempio al tempo tutti i bambini, specialmente quelli che abitavano in Provincia, vedevano l’evoluzione delle stagioni attraverso gli alberi, e conoscevano gli animali da cortile, ma non avevamo né cellulare né altre cose digitali. Oggi mia nipote di 5 anni è espertissima a toccare i tasti di un telefonino, ma per vedere una gallina o una mucca devono portarla alle fattorie didattiche. Ognuno ha le sue conoscenze, non c’è del più o del meno, ma semplicemente un’evoluzione. È chiaro che un’insegnante formata alla scuola di ieri queste strategie le deve trovare, perché deve adattarsi ai bambini di oggi. Perché secondo te gli insegnanti esplodono, in scuola media e superiore? Perché secondo me è chiaro che serve sempre la preparazione e l’abilità nella materia specifica, ma soprattutto serve il tuo modo di rapportarti ed essere autorevole. Nel mio lavoro di dirigente ho trovato fondamentale la mia preparazione in psicologia piuttosto che contenuti specifici in altre discipline, come storia, matematica. Ma il discorso delle relazioni è stato fondamentale: senza quello è come se tu dessi un ordine, alle tue classi, a cui i bambini e ragazzini reagiscono in tutt’altro modo. In quei lavori in cui hai a che fare con le persone ti devi porre a seconda di chi hai davanti in quel momento: essere duro quando devi ottenere delle cose, lasciare parlare i genitori… Spesso venivano le mamme dei bambini piccoli, ognuna col suo problema che ai miei occhi poteva essere banale, ma se veniva a dirmelo in quel momento per lei era importante, e io dovevo ascoltare; poi semmai mi davo delle priorità sul modo di risolvere la questione postami. Però è fondamentale, se non avessi fatto quel passaggio, l’alternativa sarebbe stata che le mamme si sarebbero trovate  a crocchio nella strada, e poi dopo sarebbe venuto fuori di tutto e di più. È  importantissimo che la cosa venga stoppata in questo modo: l’ascolto è fondamentale, per tutta la società.

D: Tu ritieni che gli insegnanti abbiano paura dei bambini a cui insegnano?

R: Forse non si tratta tanto di paura, ma sicuramente c’è una difficoltà a rapportarsi a diverse famiglie: dopotutto la famiglia è estrazione della società, e in molte non c’è propriamente una forma di collaborazione, che fortunatamente persiste in tante, ma piuttosto l’atteggiamento di difendere a spada tratta il proprio bambino, senza conoscere le situazioni specifiche che si verificano a scuola; e questo è un errore. Oggi si parte subito col ricorso scritto, con la carta bollata, e quindi a volte l’insegnante pensa: “perché mi devo cercare le grane?”, evitando di andare a puntualizzare certi aspetti che invece diventerebbero educativi, se ripresi.

D: Come se i genitori fossero a prescindere alleati col bambino, e non più degli altri adulti che ci sono intorno a lui?

R: Vorrei che almeno i genitori cercassero di capire cos’è successo davvero…quando lavoravo a volte succedeva che arrivasse un genitore dicendo: “sa, mio figlio mi ha detto che la maestra gli ha tirato in testa un quaderno”, e io rispondevo: “mah signora, mi sembra strano, ma né io né lei c’eravamo, se crede…”; poi però se dicevo: “signora però lei sa quante cose dicono i bambini alle maestre, del tipo – sai maestra ieri mia mamma piangeva…”, allora quella ribatteva: “ma lei non ci crederà mica???”! Eh scusa, non è lo stesso discorso?? Si parla di vissuti del bambino; se questi vede la mamma piangere, non sa a che cosa lo deve. La stessa cosa vale quando racconta che c’è stato un episodio forte a scuola, dove di fatto magari è solo stato battuto un quaderno sulla cattedra da parte dell’insegnante… Dunque prima di agire, si dovrebbe verificare; i bambini sono così, non è che dicono le bugie, è un loro vissuto, e bisogna valutare come lo infiorano. I genitori avranno anche paura che i loro figli a scuola vengano trattati male, ma questo non ci aiuta a crescere.

D: Lo so, certo che la cronaca ci racconta spesso episodi di mala istruzione, abusi sui bambini, sembra che tutti abbiano paura. Ho letto un articolo molto interessante di Marco Aime, un sociologo, che si intitola “la paura, malattia dell’occidente”. Questo ricollega anche alla paura di cui parlavamo prima tra immigrati e noi “autoctoni”, se si possono chiamare così, giacché poi tanto siamo tutti frutto di migrazioni passate e anche future. Tornerei al discorso dei migranti giusto per non perderlo perché era molto interessante quello che dicevi prima che cominciasse l’intervista su come è cambiato anche l’assetto delle vostre classi a “Il Portone del Canavese” dopo l’obbligatorietà di dimostrare la conoscenza dell’italiano, perché sono arrivati, dicevi, dei migranti che prima non erano mai venuti: i cinesi. Mi stavo oltretutto chiedendo se anche i russi con la loro scrittura in cirillico fossero assimilabili ai cinesi…

R: No, perché loro hanno una seconda lingua. Ognuno ha la propria lingua con la propria grafia, ma di norma hanno tutti una seconda lingua, di solito francese, o inglese…il 90% degli immigrati è molto scolarizzato. Non dobbiamo dimenticarci che la nostra immagine di immigrato è quella – errata - di una persona senza strumenti. Mentre anche chi arriva coi barconi solitamente ha in mano il diploma di scuola superiore. È chiaro che nel mucchio arrivano anche persone analfabete…Al nostro corso l’esperienza più tragica è stata di due signori marocchini analfabeti nella loro lingua…ma abbiamo per fortuna un’insegnante fantastica che con santa pazienza si è messa ad aiutarli, e qualcosa è riuscita a dargli.

D: A volte sanno parlare l’arabo ma non sanno scriverlo, vero?

R: Si, specialmente quelli che arrivano dai clan berberi, dalle tribù più interne del paese, che per la loro peculiarità nomade non hanno avuto l’opportunità di andare a scuola…

D: Bè, alla fine non siamo proprio  delle cime neanche noi italiani, che spesso e volentieri non abbiamo conoscenza e padronanza di una seconda lingua…

R: Sai quante persone ci sono ancora in Italia che non sono analfabeti, ma analfabeti di ritorno, ovvero persone che, sì, sono andate a scuola, ma da quando hanno finito la quinta elementare o la terza media non hanno mai più scritto né letto un libro? Si chiamano analfabeti di ritorno, nel senso che non hanno più strumenti per poter accedere alla comunicazione convenzionale. I cinesi sono arrivati al nostro corso per dare l’esame necessario da presentare alla questura, e per noi è stato un grosso impatto perché anche se si tratta di  gente che è qui da 4, 5 anni che lavora soprattutto nei ristoranti e nelle gastronomie, fanno comunità al loro interno…quindi non hanno assolutamente opportunità di parlare al di fuori; quindi ci siamo trovati non solo a fare i gesti con loro, ma addirittura i disegni per indicare vocaboli come “sedia” ,” tavolo” “penna”. Ricordo una signora che incontro ancora ora in giro per Ciriè che piangeva perché si rendeva conto di non capire, e noi ci rendevamo conto che non riuscivamo a insegnarle…ma lei era completamente bloccata dal punto di vista emotivo. Poi, quando si è sbloccata, chiaramente dopo qualcosa è riuscita a fare, anche perché è una ragazza intelligente. Però questa consapevolezza la bloccava ancora di più; di fronte ad una parola o a una non comprensione…sì, hai il vocabolario, ma è quasi impossibile cercarvi  parole, perché tanto la grafia non la capisci assolutamente, perché dove c’è un’omonimia o un segno simile, vuol dire completamente un’altra cosa…insomma, inizialmente non riuscivamo ad entrare in comunicazione.

D: Ci vorrebbe forse un vocabolario come quello che si usa alle elementari, figurato?

R: Si, certo. E poi soprattutto anche lì se i costi non fossero proibitivi ci vorrebbe un mediatore culturale, ma non è possibile, soprattutto di sera. Sarebbe anche un modo di inserirli prima…

D: A livello culturale avete invece trovato delle differenze tra i cinesi e gli altri immigrati che arrivano soprattutto dall’est Europa, dal Maghreb e dal sud America?

R: Non direi tanto a livello culturale, quanto proprio perché la comunità cinese è a sé stante, e ha un’estrema difficoltà a mettersi in relazione con gli altri, cosa che non trovi in altri immigrati…”Il Portone del Canavese” organizza le feste a Natale, che viene rispettato da tutti, piuttosto che a fine anno: obiettivo delle feste è coinvolgere anche le famiglie, oltre che le persone che frequentano il corso. In quelle occasioni ognuno porta la musica e i cibi tipici del proprio paese. Sono occasioni che aprono di più al dialogo, per cui ti capita finalmente di vedere la ragazza dell’Est che sta insieme alla peruviana, per fare un esempio. I cinesi invece hanno questa estrema difficoltà a “mescolarsi”…speriamo che la nostra scuola li aiuti.

D: Forse secondo te le seconde generazioni, ovvero i figli dei cinesi nati direttamente in Italia, lo troveranno più facile?

R: Mah, sono comunque ragazzi molto giovani quelli che vengono al corso. Comunque davanti alla ragazza che piangeva dicevamo: “guarda che se dovessi imparare il cinese reagirei esattamente come te!”. Per avvicinare la popolazione italiana alla cultura degli immigrati che frequentiamo forse quest’anno due nostre ex allieve metteranno a disposizione le loro abilità linguistiche per fare conversazione nella loro lingua con italiani, una in inglese e una, Neima, in arabo.

D: Neima è una favolosa signora marocchina che ho conosciuto anche io, quando lavoravo al Centro Giovani Taurus, in alcuni progetti molto interessanti che allora portavamo avanti. Mi dicevi che per insegnare l’italiano ai cinesi hai trovato delle assonanze con il lavoro che hai fatto in passato con degli allievi sordomuti, e quindi hai rispolverato quelle conoscenze?

R:  L’esempio che ci faceva ai tempi l’insegnante che veniva a spiegarci il metodo era: “Se io parlo un lingua straniera che tu non conosci per nulla, tu  mi capisci dal gesticolare”. Ed è un po’ la situazione di un bambino sordo che vede dei movimenti ma che non riesce a cogliere il senso dei suoni perché non li sente…allora sia che tu non li senta, sia che tu non li capisca, io capisco il senso di ciò che mi stai dicendo dalla tua espressione. Quindi si lavora con immagini e mimica, che per fortuna come italiani non ci manca!

D. E’ molto interessante. Siamo arrivati alla fine dell’intervista: l’ultima domanda, che però è stata già un po’ sbobinata, riparte dal metodo Montessori, che hai già spiegato prima. Rispolveriamo prima però cos’è questo metodo: creato da Maria Montessori agli inizi del ’900 partendo dallo studio dei bambini con problemi psichici, al tempo denominati “subnormali” (ogni periodo ha le sue definizioni!), e poi esteso allo studio dell’educazione per tutti i bambini. Principio fondamentale doveva essere la libertà dell’allievo, perché “solo la libertà favorisce la creatività del bambino, già presente nella sua natura; dalla libertà scaturisce deve emergere la disciplina. Un individuo disciplinato è capace di regolarsi da solo quando sarà necessario seguire delle regole di vita”. Visto che nel periodo infantile c’è un enorme creatività nei bambini, è una fase in cui essi assorbono le caratteristiche dell’ambiente circostante facendole proprie.

R: Prima parlavamo dell’ex ministro Gelmini, che non è un’insegnante; Maria Montessori era un medico. Il fatto di essersi interessata alla parte pedagogica di questi bambini che avevano difficoltà nei primi anni del ‘900 è una dimostrazione di come l’intelligenza di una persona riesce ad adattarsi pur con la sua preparazione medica. Non deve essere frainteso il discorso della libertà, perché a volte mi sento dire “ah, se non ci fosse stata la Montessori che li lasciava fare quello che volevano…”. Non era questo che la Montessori intendeva per “libertà”: lei diceva che bisognava preparare l’ambiente adatto al bambino in modo che lui potesse costruirsi il suo percorso, ma quell’ambiente era stato preparato da un adulto, per cui era un po’ se ci fosse stato un sentiero tracciato. Quindi lui era libero di muoversi ma si muoveva secondo certi canali che l’adulto aveva con gradualità formato.

D: Come il Centro per la Famiglia.

R: In effetti il materiale che Maria Montessori aveva, specialmente il materiale sensoriale, quindi quello per i più piccoli, era un materiale auto-correttivo, che ancora oggi troviamo nei giochini al supermercato; il bambino, nell’usare quel materiale, quel gioco, doveva arrivare a non sbagliarsi. Se faceva una torre di 10 cubi e metteva il cubo più piccolo alla base, la torre crollava; ad un certo punto quindi il bambino capiva che doveva mettere alla base la torre più grande. Se un bambino “normale” dopo 3 giorni che lo usava arrivava a comprendere le regole basilari, un bambino con difficoltà ci metteva un po’ di più ma alla fine lo faceva anche lui. E così tutto il materiale era strutturato per dare i concetti fondamentali: dal grosso al fine, dal pesante al leggero, dal davanti al dietro, dall’alto al basso…tutto materiale strutturato per cui usato nel modo sbagliato alla fine gli restavano due, tre pezzi e il bambino capiva che non era così che doveva utilizzarli. Quindi l’insegnante doveva essere quella persona che quel giorno faceva trovare quel materiale perché il bambino autonomamente lo prendesse e imparasse ad usarlo.

D: l’insegnante doveva quindi creare il setting?

R: Questo è fondamentale, un lavoro molto importante quello dell’insegnante per permettere al bambino di fare questo percorso; poi possono esserci anche state delle complicazioni anche nella scelta di questo materiale, che a volte poteva essere un po’ astratto. Però il principio era quello, cioè del preparare l’ambiente adatto al bambino per facilitare l’apprendimento. E questo qualsiasi insegnante lo sa: il primo giorno di scuola prepara una cosa allegra, si concentra sul benvenuto ai bambini. L’insegnante mette fuori le cose che vuole che i bambino ritrovi i primi giorni, magari per aiutarlo a non sentire troppa nostalgia di casa; o nei passaggi tra la materna e le elementari ci vorrebbe soltanto questa attenzione che facilita un po’ di più l’apprendimento dei bambini.

D: Come Maria Montessori, medico, è stata curiosa di imparare cose nuove, forse la curiosità è ciò che può essere mancato al nostro ex ministro?

R: La curiosità dovrebbe continuare ad esserci per tutta la vita e per tutti noi. È fondamentale ad ogni età. C’è stata anche quest’anno l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Unitre di Ciriè, dove ogni tanto vado a fare delle conferenze: questo è tipico dell’Unitre, che ognuno metta a disposizione le proprie esperienze per comunicarle agli altri. C’è una signora, la signora Gisolo, che ha 98 anni ed è ancora curiosissima; o la segretaria all’Unitre, la signorina Zucca: sono entrambe degli esempi che la curiosità, il non fermarsi mai, il leggere, lo stare con la gente, il parlare, ti aiutano a tenere la testa in esercizio.

D: Arrivo all’ultima domanda: il metodo Montessori è partito dallo studio di bambini cosiddetti “subnormali”, o disabili, portatori di handicap, diversamente abili, come vogliamo chiamarli…Sono curiosa di sapere prima come insegnante, poi come dirigente scolastico, come nella pratica a scuola ti sei mossa nei confronti dei bambini disabili che avevate nelle classi.

R: Come insegnante te l’ho già detto, nel senso che il mio primo percorso è stato di insegnare nelle classi differenziali speciali. A Torino c’era una scuola speciale residenziale che era il “Cavoretto”, che lavorava con il metodo Montessori. Ma ancora oggi ci sono nelle scuole statali delle classi che utilizzano il metodo Montessori; io ho insegnato in quelle classi. Una ad esempio era in corso Svizzera, a Torino. Il fatto di essere a contatto con i bambini che hanno delle difficoltà è sempre stato uno stimolo per me, anche perché sono sempre stata molto curiosa di conoscere tutti i metodi che negli anni sono venuti fuori, perché solo conoscendoli potevo sapere se mi potevano servire in determinati frangenti, oppure no. Spesso potevano essere delle cose di per sé banali o complicate, altre volte invece davano degli spunti…e ho sempre cercato anche con gli insegnanti, nel momento in cui sono diventata dirigente, di portarli a conoscere quelli che erano gli ultimi studi, le ultime novità facendo venire consulenti esterni, tant’è vero che negli ultimi dieci anni la scuola che dirigevo era diventata centro di riferimento per tutto il territorio per l’inserimento dell’handicap. Credo che lo sia ancora adesso. E questa è stata una cosa importante perché era anche un modo di comunicare alle famiglie di bambini con handicap…non c’è niente di più arricchente che essere insieme a queste famiglie, perchè a volte entri proprio in contatto con quello che è la loro realtà, il loro quotidiano, e i loro problemi. Non si tratta di essere buoni, si tratta di capire. Ricordo sempre che una delle prime frasi che un’insegnante (che era la sorella di Primo Levi) che insegnava neuropsichiatria infantile quando facevo la scuola ortofrenica diceva sempre: “Quando vi trovate davanti questi bambini voi non dovete essere più buoni. Voi dovete pensare che sono dei bambini, e trattarli da bambini. Poi dovete pensare che hanno bisogno di alcuni accorgimenti in più, perché magari non ci vedono, non ci sentono, o perché hanno difficoltà evolutive o mentali, ma sono dei bambini. Per cui se devono essere sgridati vanno sgridati, se bisogna aiutarli bisogna aiutarli. Ma il fatto di essere buono perché fa pietà non aiuta un bambino a crescere”. E questo è davvero un punto cardine, e vale anche per tutte le altre persone. Io sono amica di Giancarlo Ferrari e di Marisa Bettassa, che sul territorio sono due persone eccezionali che hanno fondato l’associazione “Volare Alto”: loro sono un esempio di un modo di vivere, cioè il non lamentarsi per la loro situazione, il denunciare quello che manca e quello che rende loro la vita ancora più difficile, ma nello stesso tempo ridere e sorridere delle cose del quotidiano. È fondamentale, perché altrimenti non si aiuta a crescere nessuno.

D: Avere questi bimbi, nel momento in cui le classi differenziali e le scuole speciali non ci sono più state, nelle classi normali ha portato dei cambiamenti nei modi di insegnare? Come ci si è dovuti organizzare?

R: Sicuramente ci furono dei cambiamenti per via della presenza di bambini portatori di handicap nelle classi; intanto era importante capire che tipologia di handicap avevano, e inoltre tale cambiamento ha significato l’inserimento di un altro insegnate in classe, l’insegnante di sostegno o anche un insegnante comunale. Ciò ha portato alla  condivisione della responsabilità educativa dell’insegnante curricolare con altre persone, mentre prima la responsabilità era solo di quell’unico insegnante. C’è stata un’evoluzione nel corso degli anni che certamente ha arricchito le persone. Poi se vogliamo discutere sul fatto che spesso ci sono delle difficoltà, che a volte questi bambini sono stati messi fuori dalla porta e isolati con l’insegnante di sostengo, dico che, come tutte le cose, in alcune situazioni ci sono state delle cose che non funzionavano. Ma secondo me la soluzione non è nel togliere l’inserimento dei bambini e ragazzini disabili nelle classi “normali”; la soluzione è nel far funzionare quello che non ha funzionato…sai, perchè a volte si parla di tornare alle classi speciali…

D: Bè, l’han già fatto, o lo stanno per fare, con i bambini immigrati con la scusa di aiutarli a imparare meglio e più in fretta l’italiano, no?

R: Speriamo di non arrivarci.

D: Sono d’accordo che sia una difficoltà a volte averli in classe, intendo sia bimbi o ragazzi immigrati, sia bimbi o ragazzi che hanno difficoltà, perché si deve tenere sempre conto di due cose: da una parte le possibilità del bambino di imparare delle cose, e dall’altra parte il non sentirsi escluso e l’utilità di stare in compagnia dei compagni di classe.

R: Specialmente quando ci sono dei grossi ritardi evolutivi. All’introduzione dei bambini con difficoltà in classi normali, una delle prime osservazioni negative era che per dare qualcosa in più al bambino in difficoltà, magari lo si sarebbe tolto agli altri. E quindi la paura degli altri genitori era che ritardassero il programma…solo con un lavoro nel tempo si è visto che non era questo il problema. Poi è vero che in questi ultimi anni anche nel settore sociale cominciano a mancare le risorse per affrontare questi problemi, e con niente non si fa niente. Leggevo sulla stampa di stamane di una bambina di Settimo Torinese che ha una malattia alla pelle che le provoca ferite..l’anno scorso ha frequentato la scuola dell’infanzia, mentre quest’anno senza il sostegno non riesce, non può frequentare la scuola. Dal punto di vista cognitivo-evolutivo non ha difficoltà, ha però bisogno di qualcuno le l’aiuti a non farsi male, se no ci sono conseguenze gravi perché la pelle non cicatrizza. E il dirigente scolastico ha detto: “Noi non abbiamo una persona che per adesso riesca a coprire il tempo di permanenza della bambina a scuola”. E dato che la scuola dell’infanzia non è ancora scuola dell’obbligo, la bambina sta a casa, quando invece più ci sono difficoltà, più è necessario che questi bambini stiano insieme agli altri, per loro e per la famiglia.

D: A volte quest’ultimo obiettivo socializzante prende più importanza dell’obiettivo didattico, perché poi sono bimbi che facilmente quando diventeranno grandi avranno sempre meno possibilità.

R: Già una bambina così non puoi portarla ai giardinetti a giocare…il momento scolastico è fondamentale per la socializzazione.

D: Carla, ti ringrazio per la disponibilità e per la ricca intervista che mi hai concesso.