sabato 3 novembre 2012

UN'ESPERIENZA PER FAR TORNARE IL SORRISO AI BAMBINI TERREMOTATI


Ascolta l'intervista a Irene Berrone cliccando QUI


Ricordate il terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna a partire da maggio e per tutta l’estate? Per le popolazioni della zona sono state adibite delle tendopoli temporanee in cui vivere per qualche mese, in attesa di ristrutturare le abitazioni danneggiate dal sisma o di costruire dei prefabbricati più adeguati per l’inverno. Molti enti si sono attivati per dare una mano a riportare il più in fretta possibile la normalità in Emilia Romagna, ognuno nel proprio settore di competenza. Irene Berrone, 27 anni di Ciriè, è stata coinvolta da uno di questi, e ci racconta la sua esperienza nella tendopoli di San Possidonio.


Come sei arrivata in Emilia Romagna?

Mi trovavo in vacanza, ad agosto, e sono stata contattata da una persona che lavora nella comunicazione per Save the Children: l’ente cercava personale specializzato, possibilmente del luogo, per gestire un progetto con i bambini terremotati all’interno del Progetto Emergenza Emilia Romagna, ma faticava a trovare persone, per cui ha esteso la ricerca ad altre regioni. Mi è stato chiesto se fossi stata disponibile a partire anche nel giro di pochissimo, perciò… sono tornata di fretta a Ciriè e dopo due giorni, il 18 agosto, sono partita per l’Emilia Romagna.

Di cosa ti sei dovuta occupare? 

Io e il mio team, composto da una quindicina di operatori (dei quali solo 4 o 5 del luogo), lavoravamo in 4 tendopoli gestite da Protezione Civile, Croce Rossa e Carabinieri: a Finale Emilia, San Possidonio, Novi di Modena e Concordia sulla Secchia. Il nostro tendone si chiamava “Spazio a misura di bambino”, dove facevamo tutti i giorni attività con i bambini che vivevano nella tendopoli: da attività ludico – creative a gite (ad esempio in piscina o a Mirabilandia), il tutto con l’obiettivo di aiutarli a rielaborare il trauma e a tirare fuori le loro emozioni, in particolare la paura.

Abbiamo lavorato anche molto sulla risoluzione non violenta dei conflitti: vivere in una tendopoli per 4 mesi, dove si deve dividere una tenda con altre 2-3 famiglie, farsi la doccia in bagni chimici e dover far la coda per mangiare crea ovviamente molto stress. Erano molto frequenti i litigi tra gli adulti così come tra i bambini. Infine abbiamo lavorato anche molto sulla CRC  (Convention on the Rights of the Child, la Convenzione ONU dei diritti del fanciullo del 1989), realizzando su questo argomento diverse attività e giochi: dalla caccia al tesoro, al gioco dell'oca costruito dai bambini stessi. Nelle attività settimanali c'erano poi anche laboratori di cucina, drammatizzazione, lettura, gioco libero, manipolazione, e molti altri.

Lavoravamo tutti i giorni dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19, con una mezza giornata di libertà a settimana, finché i campi non sono stati chiusi (cosa che sta avvenendo in questi giorni). Dalla chiusura dei campi le famiglie che non avranno trovato ospitalità nella loro rete sociale verranno collocate in residence o prefabbricati della regione, in ordine di priorità: chi ha figli resterà vicino alle scuole (prefabbricate anche quelle, se sono crollate), altrimenti saranno costrette anche a spostarsi fino alla Riviera. Il nostro team (a parte gli operatori locali) dormiva in un residence antisismico, non nelle tendopoli, proprio per mantenere quella distanza che ci permetteva di occuparci con lucidità dei bambini. Certamente lavorare, mangiare e dormire tutti insieme ha richiesto la ricerca di un certo equilibrio nel gruppo…

Save The Children non lavora con volontari, ma assume sempre personale qualificato o comunque con esperienza. Tu di cosa ti occupavi prima di partire?

Finora mi sono soprattutto occupata di rifugiati politici e di donne vittima di tratta con la cooperativa Progetto Tenda di Torino. I miei colleghi invece arrivavano da esperienze specifiche in laboratori scolastici nelle elementari e superiori, e in particolare da un progetto di Save the Children sulla discriminazione. All’inizio quindi li ho affiancati, più che altro osservando. Solo dopo questa fase iniziale ho cominciato ad agire direttamente gestendo i laboratori, sempre in coppia con una mia collega.

Parlaci di questi bimbi: il terremoto che effetti ha avuto su di loro?

All’inizio per molti bambini c’è stata una forte regressione: bimbi di 5 anni sono tornati a mettere il pannolino; quelli stranieri hanno smesso di parlare italiano, e via dicendo. In generale tutti avevano un grosso problema ad accettare di avere determinati stati d’animo, soprattutto essere arrabbiati perché la propria casa non c’era più, perché tutti i propri giochi non c’erano più. In tutti, bambini e adulti, è rimasta una gran paura: soprattutto la paura di addormentarsi. Mentre ero là, una notte c’è stata una scossa con epicentro vicino alla superficie (a solo 1 km di profondità) proprio dove eravamo noi. Io dormivo, ricordo di aver fatto degli incubi ma sono stata l’unica a non averla avvertita (probabilmente noi che non siamo abituati non sappiamo riconoscere questi eventi…). Però in tutti s’è risvegliato il panico, anche nei miei colleghi che erano lì da maggio, molti sono andati a dormire in macchina. Il nostro capo progetto è partito subito da Roma ed in quattro ore era da noi insieme ad un team di psicologi.

Poi i bambini sono tornati a scuola come tutti?

Si, dapprima nei tendoni, gli stessi dove facevamo i laboratori, e ora sono nelle tensostrutture costruite appositamente. Fa effetto lavorare nei tendoni, perché ci sono 6 classi tutte insieme, divise sono da un sottile strato di legno, e il tendone è su un campo da calcio…

Cosa ti è rimasto più impresso di questa esperienza?

Sicuramente la voglia di ricominciare delle famiglie. Io poi ho lavorato in un campo particolare, perché molti nuclei erano seguiti dai servizi sociali già prima del terremoto, e quindi c’era da tenere conto, oltre che delle conseguenze del terremoto sui bambini, anche delle eventuali violenze subite all’interno della famiglia. Save The Children è sempre molto attenta, riguardo agli abusi.
Il problema nel problema…che cocktail micidiale.
Si, infatti le prime settimane sono stata talmente inglobata nella realtà dei tendoni, nelle storie di questi bambini, che faticavo a tenere i contatti con familiari e amici qui a Ciriè.

Rifaresti quest’esperienza o è stata troppo faticosa?

La rifarei mille volte. A livello professionale ho imparato tantissimo: di certo a relazionarmi con bambini difficili. Quando ti trovi davanti a una bimba di 4 anni che ti insulta e urla dietro devi trovare il modo di reagire nella maniera giusta, soprattutto quando non hai esperienza in questo campo. Il primo periodo di affiancamento alla mia collega psicologa è quindi stato preziosissimo: per lavorare in situazioni così l’osservazione iniziale è fondamentale.

Qual è la soddisfazione maggiore che ti porti a casa?

Una riguarda un bambino di otto anni: un pomeriggio mi ha insultato, lanciato contro delle cose… io l’ho rincorso e poi sono riuscita a parlargli, spiegandoli che, per il rispetto di me, di lui, degli altri bambini e dello spazio dove eravamo, certe parole non andavano dette; questo bambino non mi guardava negli occhi mentre gli parlavo, ma dal giorno dopo è cambiato tutto: è cambiato il suo atteggiamento nei miei e degli altri bambini, ed è stata una soddisfazione vedere che anche lui stesso stava meglio. Ero così contenta! E’ stata una soddisfazione anche avercela fatta a terminare questo mese e mezzo; due settimane prima di partire ho temuto di non farcela: ho capito ormai che in situazioni così di emergenza nulla è certo, ma l’incertezza su una certa data piuttosto che un’altra circa la chiusura dei campi e quindi riguardo al nostro ritorno a casa mi ha messa a prova.

Adesso sei tornata a Ciriè e alla tua vita normale, che è fatta di… ?

Purtroppo pochino: sono tornata ad occuparmi dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) alla Società Operaia di Ciriè, e per il resto sto cercando lavoro. In realtà però in questi giorni sono ancora concentrata a riabituarmi a questa realtà, e a staccarmi mentalmente dall’Emilia Romagna. E’ vero che “tornare”, esattamente come “partire”, non è mai facile: l’ho provato anche in altri miei viaggi (due volte in Burkina Faso con l’associazione Legamondo di San Maurizio, 3 mesi in Francia come ragazza alla pari e 4 mesi di stage in Bolivia), ma stavolta è particolarmente difficile (anche perché laggiù,  quei ritmi così serrati, non avevo tempo per me, per staccare). Quando torni trovi tutto più o meno come prima, mentre dentro di te molte cose, se non tutte, sono cambiate: e stavolta lo sento in maniera molto forte.

E’ stata davvero una sfida. Chissà quale sarà la prossima…

Si, ma a me piacciono le sfide! Devo ammettere che non ho più tanta voglia di restare qui a Ciriè: quando fai questo tipo di esperienze ti rendi conto di quanto il mondo sia grande, e capisci che le persone che ti possono dare qualcosa e arricchirti sono davvero tante, e quindi torni già con la voglia di ributtarti in altro. Per tornare ancora più ricca.







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